La rivoluzione della rivoluzione: il mea culpa di Ghisolfi

LAROMA24.IT – Hanno bocciato il mercato estivo della Roma, chi sia stato…beh, si sa. La scelta della canzone non è casuale, basta seguire un po’ di cronaca: la Roma è stata così a lungo ferma sul mercato che in questa piazza particolare, diciamo così, si è arrivati anche a parlare di un concerto serale a due giorni da un match. Il nulla assoluto, più o meno l’effetto prodotto da molti acquisti estivi targati Souloukou-Ghisolfi

In estate erano arrivati Dahl, Sangaré, Le Fée, Soulé, Hermoso, Hummels, Koné, Saud, Ryan, Saelemaekers e Dovbyk. Il primo non ha mai giocato o quasi, non era minimamente considerato: ha salutato, dopo esser stato proposto a destra e a manca. Al suo posto è arrivato Salah-Eddine. Il secondo, a quanto pare, è stato preso per la Primavera. Il terzo è in Inghilterra, è già stato ceduto (nelle speranze e nelle intenzioni del club), dopo un investimento di “soli” 23 milioni di euro e praticamente non lo abbiamo mai visto. Il ruolo da vice Paredes è ora condiviso tra Gourna-Douath e Cristante, quest’ultimo ancora a Trigoria non per volontà della dirigenza giallorossa ma per mancanza di offerte: Enzo di chance praticamente non ne ha quasi mai avute, ma ciò che conta è il risultato, è altrove e sta facendo vedere cose interessanti. Il quarto è stato preso per fior di soldi e soprattutto per fare il titolare nello scacchiere di Daniele De Rossi, allontanato in fretta e furia e in circostanze e modi grotteschi. Fino alle ultime partite era stato malinconicamente in panchina, riserva fissa, con tante squadre che lo volevano e lui che era combattuto perché non sapeva se restare all’ombra di Dybala (e di Saelemaekers, a volte di Baldanzi…) o se andare. Le chance arrivate nelle ultime partite lo hanno convinto a restare. Poi c’è Hermoso, anche lui andato via: arrivato a costo zero a mercato finito dopo aver parlato con De Rossi, ora è parcheggiato al Bayer Leverkusen perché alla ricerca di minuti. E quindi serviva un altro difensore, anche se già te ne serviva uno prima, alle spalle di Mancini, dove al suo posto (o di Hummels se questi non c’era) sono stati utilizzati un po’ tutti, da Celik fino a Zalewski, fino a Cristante. È arrivato Nelsson, il campo ci dirà, ma il vice Mancini è finalmente arrivato, seppur con diversi, troppi, mesi di ritardo.

Finalmente le note positive: Hummels e Koné. Il primo dopo l’horror show targato Juric (e Souloukou-Ghisolfi) ha finalmente ripreso possesso delle chiavi di casa sua, ovvero la titolarità. Mai più senza, ovviamente. Il secondo, probabilmente IL colpo dell’estate, è arrivato grazie a Daniele De Rossi, eredità dell’ex tecnico giallorosso, è stato un investimento benedetto, praticamente perfetto: è il giocatore con il rendimento più alto e continuo da inizio anno. Saud è un capitolo a parte, sicuramente non è un giocatore ritenuto affidabile, visto che non gioca mai. Al posto suo Ghisolfi avrebbe sicuramente potuto prendere un giocatore utile alla causa: così non è stato ed è successo a gennaio, con Rensch. Ryan, è un altro giocatore arrivato in estate che già ha salutato. Strano, veramente strano che una squadra che nel 2024 ha avuto 4 allenatori, ha visto andare via dirigenti importanti (ancora non sostituiti, come il CEO: ve lo ricordate?) veda gente chiedere la cessione. 

Dovbyk, invece, è una delle altre note positive del mercato giallorosso: 12 gol e 2 assist, molte reti decisive ai fini del risultato, il tutto mostrando ampi margini di crescita e tanto materiale sul quale poter lavorare in ottica futura. Con tre allenatori diversi e senza una squadra che giocasse per lui e non su di lui come ultima risorsa è riuscito a segnare 12 gol e a non sfigurare. In una stagione drammatica come quella giallorossa sta riuscendo comunque a lasciare il segno. Saelemaekers, poi, l’altro colpo perfettamente riuscito: in giallorosso sta giocando a livelli che finora non aveva mai toccato, neanche a Bologna, fra gol, duttilità e assist.

Dopo aver speso tanti, tantissimi, soldi in estate, la Roma stessa ha di fatto giudicato negativamente il mercato e quindi l’operato di Ghisolfi. Un po’ tutti ci aspettavamo una sessione invernale più aggressiva ed è successo quasi tutto nelle ultime 24 ore. Dopo il mercato estivo la rosa era gravemente incompleta, il 4 febbraio dopo due sessioni di mercato e tantissimi soldi spesi (o impegnati) all’appello manca ancora un vice Dovbyk: non è accettabile. In caso di fastidi o influenze per l’ucraino, in campionato o nelle fasi finali di una coppa, il titolare della Roma sarebbe Shomurodov. Se ce lo avessero detto ad agosto avremmo riso. R piccola, per carità, abbiamo già dato.

Ricordate la rivoluzione fatta circolare dai Friedkin per alzare fumo e polvere negli occhi dei tifosi inferociti, stuzzicando gli appetiti beceri di un popolo deluso, arrabbiato, ferito, indirizzando il fuoco verso i soliti capri espiatori, i “senatori” (uno di quei due si è rilanciato con gol e cose utili)? Solito populismo applicato al calcio, anche perché se prendete la rosa di quest’anno e quella di maggio scorso risulta evidente come la rivoluzione sia già avvenuta. In panchina, in campo, dietro la scrivania. Non del tutto, quest’ultima.

Una nota di merito, però, la merita Ghisolfi: non ha insistito sui propri errori, ha capito di aver sbagliato, ha trovato soluzioni in uscita per gli acquisti che si sono rivelati sbagliati o inutili (per diversi motivi). Umiltà sì, tempismo no, capacità comunicativa addirittura meno, idee tante, perché i profili arrivati sono interessanti e futuribili, soprattutto Gourna-Douath, potenzialmente un altro colpo stile Koné, per il presente e per il futuro, quando Paredes sarà finalmente (per lui) accontentato con il ritorno in Argentina. Ora sarà il campo a parlare e da quando c’è Ranieri l’unico settore davvero funzionante in casa Roma.

MV

Mercato alla Farioli, ma la Roma punta i big

LR24 (AUGUSTO CIARDI)  Il guaio di gennaio, è pensare che il mercato sia di riparazione. Perché continuano a chiamarlo banalmente così, credendo che serva soltanto per sostituire gli infortunati o per prendere bomber stagionati utili per salvezza disperate. Abbiamo spesso ricordato in questa rubrica che dai primi anni novanta alle soglie del nuovo millennio la Roma aggiunse in rosa Delvecchio, Candela, Zago e Nakata, grandi protagonisti dello scudetto del 2001. Per non parlare di Toni e Nainggolan, o di Dacourt. Perché non sempre si fa beneficienza ingaggiando Doumbia e Jonatan Silva, Maitland-Niles e Reynolds. Chiedere a Capello, che ai tempi del Milan ricevette a ottobre un certo Desailly.

La Roma ha usato il pennello e non la ruspa. In attesa di definire il piano per la prossima stagione. Il guaio di gennaio è che ci si affida ai giudizi sommari. Rensch è partito discretamente bene, ma in molti si sono fatti deviare il pensiero dai pareri tecnici olandesi. Van Basten, uno dei tre più grandi centravanti della storia, lo ha disintegrato con le parole. Apriti cielo. In pochi rammentano che Van Basten da quando ha smesso di giocare e ha iniziato ad allenare e a commentare, ha allenato male e commentato peggio. Era lecito probabilmente auspicare a destra una certezza. Perché dal 2012, Sabatini, Monchi, Petrachi, Pinto e Ghisolfi hanno ucciso una corsia proponendo Piris, Torosidis, Bruno Peres, Karsdorp, Maitland-Niles, Kristensen, Celik e Saud. Rensch farà peggio di loro? Difficilmente farà peggio di loro. Il guaio di gennaio è che ci si è convinti che Roma avrebbe fatto rima con rivoluzione. Timidamente ci hanno provato.

Ma la vecchia guardia è diventata vecchia perché ha firmato contratti che somigliano a vitalizi, con stipendi faraonici. Chi se li carica in spalla? Calciatori cedibili ma invendibili. Questa è la sintesi. Prima o poi quei contratti scadranno, per chi ha ancora in dote la pazienza. Il guaio di gennaio è che a molti fa un effetto destabilizzante. Pare che abbiano fatto il mercato per Farioli, ma Farioli non verrà. Mentre esistono buone possibilità che il prescelto sia uno fra Allegri e Ancelotti. Perché la Roma vuole affidare la panchina a un big. E questo non è mai un guaio. Anzi.

In the box – @augustociardi75

Le cattive abitudini

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Abbiamo passato gli ultimi sette anni a esprimere giudizi sui calciatori non rendendoci conto che li abbiamo ritenuti all’altezza o scarsi in base alla posizione in graduatoria deficitaria della Roma e non in funzione di una Roma di alta classifica, perché ci siamo via via assuefatti ai piazzamenti deprimenti. Ci siamo di conseguenza accontentati inconsciamente dei venticinque minuti di buon gioco, dei primi tempi decenti, di un paio di scorribande dei singoli, ci siamo persino esaltati per gli sparuti gol che riabilitavano tizio e caio. Per una Roma che da quinta e sesta ha iniziato poi a bazzicare il settimo posto, per poi ridursi addirittura ad agognarlo quel mediocre obiettivo. La Roma perennemente settima ha alterato il metro di giudizio sui singoli.

Ci dividiamo su Baldanzi, che nel Napoli di Conte avrebbe meno spazio persino di Raspadori. Tendiamo a esaltare Ndicka, che magari nell’Atalanta faticherebbe a trovare un posto da titolare. Ci aggrappiamo ad Angelino, che per spirito e qualità tecniche nella Roma attuale è un leader, ma che in una squadra costantemente in zona Champions League sarebbe una validissima pedina, ma alternativa ai titolari. Non ci rendiamo conto di quanto sia complicato mettere a punto la rivoluzione. Perché i tempi di bonifica sono lunghi.

Otto anni fa, per arrivare a Defrel la Roma infilava nel pacchetto dei gadget Frattesi, che oggi l’Inter è disposta a vendere per quaranta milioni. Spariamo sulla croce rossa Ghisolfi, omettendo di dire che la catastrofe ha origini lontane. Quando si lasciavano in dote Doumbia e Diawara, quando Monchi puntava Mahrez ma alla fine chiudeva per Schick e comprava per il centrocampo Nzonzi e Pastore, o quando Tiago Pinto realizzava i sogni degli altri strapagandogli Vina e Shomurodov. La Roma che in Europa ha mantenuto la rotta giusta grazie a cavalcate inaspettate o alle capacità di chi ci sa fare, in Italia è miseramente affondata. Al punto che una piazza solitamente spavalda e sfrontata nell’autoconsiderazione, ha avviato un processo di ridimensionamento dell’ego.

Pensiamoci bene: fra i calciatori e i tecnici più discussi degli ultimi anni, figurano Mourinho, Lukaku e Dybala. Davanti al nome di Allegri ci si chiede se sia il caso di puntare su di lui e se sia ancora all’altezza. Gente che ha vinto e stravinto. Gente che andrebbe seguita e ascoltata. Non a Roma. Dove invece di farci domande su calciatori e tecnici mediocri transitati a Trigoria nelle ultime stagioni, si sono aperti dibattiti sull’utilità di ingaggio di top manager e campioni.

Mourinho, Lukaku e Dybala sono da Roma?
Allegri farà giocare bene la Roma?
Quale Roma? Perché è certo che non siano funzionali in una Roma che via via si è appiattita.

Perché viaggiando nettamente sopra il livello di mediocrità, certe gente, certi campioni, non fanno pendant con un livello che irrimediabilmente si è abbassato anche alla voce ambizione. E invece di pensare a come affiancargli gente di personalità e qualità, si è cercato in loro il problema. Sia mai si fossero azzardati a diffondere il virus dell’ambizione. Facile e sbrigativo affermare che Dybala e Lukaku hanno contribuito al flop. Troppo complicato chiedersi quanti gol in più avrebbero fatto se i palloni glieli avessero recapitati calciatori diversi da Karsdorp, Celik e Kristensen. Gli ambienti non condizionano le stagioni. Ma il piattume a cui ci si è abituati, ha annacquato il senso di necessità di competitività. Ci basta un gol-cometa di Pellegrini per fare i caroselli, un’uscita palla al piede di Ndicka per chiederci se somiglia di più ad Aldair o a Juan, una mezza giocata di Angelino per urlare alla classe di Candela unita alle progressioni di Nela. Cerchiamo di capire chi non sia da Roma. Non rendendoci realmente conto che stiamo parlando di una Roma quasi da metà classifica. Perché per una Roma ambiziosa e competitiva faremmo prima a contare i pochi che potrebbero restare. Pochi pochi.

In the box – @augustociardi75

Tu vuo’ fa’ l’americano?

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Quattordici anni fa, in molti iniziavano a pregustare una Roma al burro di arachidi. Stava prendendo forma il Dream a stelle e strisce. I più esaltati, pur di liberarsi di Rosella Sensi auspicavano che la Roma fallisse e ripartisse dai dilettanti, bramosi di spazzare via una famiglia che in quegli anni veniva derisa da chi voleva ballare goffe e inopportune danze sulla carcassa delle difficoltà della holding che deteneva la Roma. Capirai, stavano sbarcando gli americani, che furono accolti manco dovessero scacciare i nazifascisti. “Siamo liberi!” urlavano gli american boys lungo le strade della capitale, sventolando obbrobriose bandierette contenenti la lupa incastonata fra le stars e le strips. Di peggio, soltanto i gadget mezzo giallorossi e mezzo biancocelesti che sarebbero stati messi in vendita due anni dopo in occasione della maledetta finale di Coppa Italia.

Si auspicava che lo studio Tonucci partorisse la fumata bianca, bisognava chiudere un capitolo durato quasi venti anni, la gestione Sensi veniva liquidata senza riconoscenza come fosse la gestione di una fraschetta che mesce vinacci di qualità infima. Molto meglio il food di Nebo, nella terra del Prez. Si imputava alla Sensi di avere accolto Fioranelli per vendergli la Roma, non sapendo che un giorno la Roma americana avrebbe fatto peggio, parlando di cessione con Al Qaddumi.

Finita, abbastanza presto, l’infatuazione per la Roma Americana prima maniera, il secondo avvento dalla terra dove dicono che tutto è possibile, nel tragico 2020, ha reso idoli una coppia, padre e figlio. Dan&Ryan. The Friedkin. Da subito amati perché in epoca di restrizioni sanitarie guardavano la Roma in tribuna indossando mascherine col vecchio stemma, seguivano le partite in casa e in trasferta. Gli bastava fare il contrario di ciò che faceva Pallotta e scattava la ola. Si stava passando dalla conoscenza di organigrammi e CDA che annoveravano ex calciatrici, italo americani coi cognomi da serie tv, legali e dirigenti provenienti da altri sport, alla conoscenza dell’algoritmo, che avrebbe sostituito l’ufficio del personale. Pigi il tasto, esce il nome del dirigente. Narrazioni. Propaganda. Perché la propaganda esiste dalla notte dei tempi, accompagna governi, società sportive, allenatori, capitani. Esiste la grancassa filogovernativa e l’opposizione, che mentre fa opposizione ostenta limpidezza morale, ma sotto sotto cova la speranza di passare dall’altra parte del fiume. Funziona così. Da sempre. In ogni angolo del mondo. Esaltazione delle cose positive, mistificazione della realtà. Ma anche esagerazioni clamorose nelle critiche negative. Come da natura umana.

Poi ci sono i numeri. Che non lasciano adito alle interpretazioni. 2011-2025. 14 campionati di Serie A. 9 sotto la gestione DiBenedetto-Pallotta, 5 coi Friedkin. “La prima Roma americana andava sempre in Champions League”. Bugia. 4 volte su 9 non è “sempre”. Non è neanche la metà delle volte. Le 4 volte sono state con Garcia in panchina (2 volte), e poi con Spalletti e Di Francesco. 0 su 5 per la Roma americana 2.0. Perché già a settembre scorso si è capito che questa stagione sarebbe stata una via crucis. 4 volte in Champions League in 14 stagioni. Meno di un terzo delle volte. Bottino misero.

Poi ci sono le coppe. Velo pietoso sulla competizione nazionale. Un oltraggio continuo alla storica tradizione del club. Da quando la Coppa Italia è stata considerata, da americani e filo americani, un inutile orpello, la Roma ha collezionato figuracce, una dopo l’altra. Anche ignobili. Molto spesso ignobili. Molto meglio in Europa. Dal 2017 a oggi (per atto di fede speriamo negli spareggi e vada come vada) la Roma ha girato il continente a testa alta. Ma non può bastare. Nei vari campionati nazionali europei, gli americani che hanno fatto bingo nel calcio sono quelli che si sono affidati a gente del mestiere. Che hanno messo da parte con umiltà un modo di ragionare, di fare business e di fare calcio, che in Europa non attecchirà mai se non si fa contaminare dal modo di operare tipico del vecchio continente. Ottieni risultati se i direttori sportivi sono competenti, alzi i trofei se in panchina c’è gente che sa come si vince.

Il calcio è molto più semplice di come i cantori della modernità vogliono farlo apparire. Troppo spesso, dal 2011 a oggi, i problemi della Roma più che sulla fascia destra andavano e vanno rintracciati dietro le scrivanie. 14 anni. 1 Conference League e 4 partecipazioni alla Champions League. Bottino misero. Vogliamo aggiungere 1 Europa League rubata, 1 semifinale di Champions League e 2 di Europa League? Ok, ma il bottino rimane misero. Soprattutto per come si erano presentati gli americani nel 2011, e per come erano stati descritti nel 2020. Non parleremo di conti, di bilanci e di marketing. Perché sarebbe come sparare sulla croce rossa. Nel calcio hai la fortuna che a fine stagione tutto si azzera. Tempo per cambiare il corso c’è. Ma non si può più sbagliare. Perché da American Dream ad American Dramma è un attimo.

In the box – @augustociardi75

La buona stampa

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Se non si conosce così bene la materia calcio, a farselo raccontare si pensa che Davide Frattesi sia l’enfant prodige a ridosso dei venti anni che un giorno potrà ambire alle big europee, e che Alexis Saelemaekers sia un onesto mestierante multiruolo a ridosso dei trenta. Poi scopri che sono coetanei. Classe 1999, nel 2025 compiranno ventisei anni.

Davide Frattesi fa giovanili della Roma, poi la più classica delle gavette, fra Ascoli, Monza ed Empoli. Arriva al Sassuolo, una delle migliori palestre, e si mette in mostra per inserimenti e fiuto del gol. Parecchi alti e qualche pausa in una squadra no stress, che raramente in A va oltre il decimo posto. Ma Frattesi gioca il calcio moderno, ha doti che spiccano. Amato da Tiago Pinto, acquistato dall’Inter, dove trova un allenatore che propone moduli all’avanguardia ma che per le sostituzioni si affida ai vecchi codici. Esce un centrale entra un centrale, esce una mezzala entra una mezzala. Frattesi ha la sfortuna di avere davanti a sé forse la più forte mezzala della Serie A, Barella. E infatti gioca poco, nel primo anno appena 5 partite da titolare, però quando gioca, dall’inizio ed entrando in corsa, fa la differenza. Coi gol, il marchio di fabbrica che gli fa conquistare la nazionale. Ma Barella gioca sempre, e Inzaghi non ci rinuncia mai.

Il secondo anno di Frattesi, all’alba dei ventisei anni, quel ruolo gli va stretto, e forte di uno dei più abili agenti italiani, Riso, fa eco il suo disagio. L’Inter? Manda a dire dalla stampa che costa 45 milioni, e la buona stampa che accompagna Frattesi non ci pensa due volte, e considera più che giusta la richiesta nerazzurra. Legittima, sicuramente. Il prezzo lo fissa chi vende. Ma poi lo fa chi compra. Però si può discutere. Un paio di campionati più che buoni nel Sassuolo, un campionato e mezzo da riserva nell’Inter. 45 milioni. A fronte di circa 30 milioni spesi un anno e mezzo fa dai milanesi. Si può discutere.

Saelemaekers pronti via viene in Italia e vince uno scudetto, come Frattesi a Milano, come Frattesi al primo anno, quando ha quasi due anni in meno di Frattesi, e nel Milan tutt’altro che favorito, saltando soltanto 2 partite di campionato e giocandone 24 da titolare, con Messias che a volte metteva la freccia per sorpassarlo. Il Milan non punta molto su di lui, sulla fascia vuole crescere, due anni dopo è a Bologna, protagonista di una stagione epocale. Va in Champions League. Ma manco il Bologna punta su di lui, e non spende quegli 8 milioni che bastano per riscattarlo. Torna al Milan ma non disfa le valigie, pur giocando la prima di campionato, praticamente da terzino sinistro(?) con Fonseca. Duttile sì, ma forse si esagera. Accordo sul gong con la Roma. Scambio con Abraham, attaccante in disgrazia celebrato dai media milanesi manco fosse Van Basten e come se i rossoneri avessero rifilato alla Roma Vinicio Verza, che i più anziani ricorderanno.

Saelemaekers non gode dei favori di quella stampa che sceglie chi deve coccolare e sponsorizzare. La Roma si ritrova finalmente una soluzione di livello per la fascia destra, laddove in quattordici anni di americani si deve risalire a Maicon per trovare un semestre (tanto durò) con un laterale decente. Anche se spesso si giocava a quattro. Ma gli esterni destri, da Piris in poi, sono stati devastanti. Per le coronarie dei tifosi romanisti.

Saelemaekers va riscattato, mentre il Milan non riscatterà Abraham. La speranza è che la stampa continui a considerarlo un onesto mestierante che se non lo conosci bene pensi che abbia trent’anni. Perché anche il movimento mediatico contribuisce a fare il prezzo del cartellino. Altrimenti ci si chiederebbe con quello spirito critico che latita sempre di più: ma come può Frattesi valere 45 milioni?

In the box – @augustociardi75

Sole spento

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Tornare nel calcio elitario. Nel calcio che conta. Sotto i riflettori, al piano attico, con vista panoramica mozzafiato. Gli intenti sono manifestati da Claudio Ranieri, che non parla a caso ma mette in prosa ciò che il ventriloquo Friedkin trasmette ai suoi dirigenti (al suo dirigente e consigliere). La Roma da troppo tempo fa la muffa nel sottoscala. Un anno fa si spegneva il faro Mourinho, e attenzione, nota a margine dedicata ai beoti che sono pronti vomitare bile e a dare l’assalto perché stiamo nominando Mourinho, parliamo, ma molti non capiranno, del faro mediatico che un personaggio come lui monta quando sposa un progetto.

Da un anno la Roma è crollata nella classifica dell’interesse al pari di quanto è crollata nella classifica del campionato. Un’ecatombe mediatica e sportiva che somiglia a una caporetto. Conseguenza? Da mesi fanno più notizia la Fiorentina e il Bologna che la Roma. Un tempo per guardare la sintesi delle partite gli appassionati di calcio avevano a disposizione, dopo le ore venti, soltanto Domenica Sprint e La Domenica Sportiva. Ecco, fossimo a fine anni ottanta o a inizio anni novanta, per vedere la sintesi della Roma avremmo dovuto aspettare quasi i titoli di coda. E se la partita in questione fosse stata Roma-Genoa di stasera, la sintesi sarebbe durata quaranta secondi. Oscurantismo calcistico.

Lo stadio continua a riempirsi, sold out o meno, che si giochi il venerdì o la domenica pomeriggio, ma il calcio del terzo millennio, che sta attento anche all’orario in cui i club pubblicano i post di condoglianze sui social, registra una Roma che non fa notizia, che non dà spunti per le prime pagine. Una Roma poco competitiva in campo e mai virale fuori dal campo. Quattro anni fa l’eco dell’annuncio di Mourinho travolgeva i cinque continenti. Poi ci fu il frastuono degli ingaggi di Dybala e Lukaku. Ma attenzione, si può fare notizia e calcio anche senza Mourinho, Dybala e Lukaku. Servono però i risultati. A cui si arriva grazie ad allenatori di grido, e possibilmente con calciatori che non contribuiscano soltanto a mantenere alto il livello della mediocrità sportiva a cui la Roma si è oramai assuefatta. E che ha disarmato gran parte di una piazza che nei primi cinque mesi di stagione si è spesso approcciata alle partite con rassegnazione.

Dan Friedkin deve riaccendere i fari sulla Roma. È di vitale importanza. Questo è l’unico indotto virtuoso da curare. La Roma non può permettersi di stare nel seminterrato del campionato. Non può avere meno visibilità sul mercato del Como che spende e spande. L’indifferenza uccide chi vive sotto i riflettori. Che da troppo sono spenti. Può considerarti il più bravo e il più bello. Se non hai riscontri, se non hai seguito, se non fai parlare di te mai, né per virtuosismi né per vizi, sei un flop. Senza se e senza ma. Senza appello. E la Roma oramai non fa più notizia manco quando perde.

In the box – @augustociardi75

E se lo dice Ranieri…

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Due volte in una manciata di giorni. Claudio Ranieri, il porto sicuro per i tifosi della Roma, comunicatore d’eccellenza, non fa calcoli quando parla di futuro. “Modello Atalanta? Non può attecchire e non è previsto, i Friedkin non hanno intenzione di passare per ulteriori tappe intermedie”. “Deve essere una Roma di alto livello, è finito il tempo della Rometta”. Quest’ultimo concetto lo ha ribadito nella recentissima intervista al Corriere dello Sport. Soltanto una promessa, si potrebbe pensare. Capirai. Da quando, nel 2011, si sono insediati gli americani, la Roma ha battuto ogni record di proclami di grandezza. Campione mondiale di intenti. Dando retta alle dichiarazioni dirette e alle veline, la Roma in questi quattordici anni avrebbe dovuto avere uno stadio nel 2016, un bilancio invidiabile, sarebbe dovuta diventare un modello di gestione per gli altri club e avrebbe dovuto mettere in bacheca chissà quanti trofei, alcuni dei quali grazie a Juric, perché così fu motivato il cambio di allenatore a settembre. Niente di tutto ciò.

Da un mese, dopo quasi tre lustri in cui a esporsi erano proprietari e dirigenti improbabili, e mass media accomodanti, c’è Claudio Ranieri, consapevole che la sua parola abbia un peso clamorosamente elevato. Gli indizi portano a dare fiducia alle parole del coach manager. Perché nell’ultima sessione di mercato Friedkin ha messo sul piatto oltre cento milioni di euro. Chiunque ha pensato che la scorsa estate, messi nelle mani giuste, quei soldi avrebbero fruttato molto di più del malinconico decimo posto attuale. Il futuro passa attraverso le consulenze di Ranieri e le virtù di Alessandro Antonello in ambito amministrativo. Il mosaico inizia a mostrare un quadro di insieme a cui manca una tessera, forse due: un allenatore di livello, e magari un direttore sportivo alla Sartori, che non comporterebbe di conseguenza la fine anticipata del rapporto con Ghisolfi. Non c’è un limite massimo di dirigenti da area tecnica da inserire in organigramma. C’è tanto da fare nel calcio moderno, le mansioni da distribuire sono molteplici. E, finalmente, gli americani stanno capendo che per scegliere i manager non bastano i cervelloni elettronici. Urgono figure professionali scafate, col pelo sullo stomaco, che conoscano la materia come le proprie tasche. Claudio Ranieri allo stesso tempo è la prima tessera del mosaico e la mente per le scelte delle tessere mancanti. La strada è giusta. La piazza ha voglia di tornare a fidarsi. Perché si fida di Ranieri.

In the box – @augustociardi75

La partita l’ha fatta la Roma

LR24 (AUGUSTO CIARDI)  Se siete molto giovani, affidatevi ai filmati reperibili sul web. Non sono in alta definizione, ma vi aiuteranno a capire che le infinite discussioni moderne e le artefatte prese di posizione da guerra dei mondi sul bel gioco, hanno i piedi di argilla. Cercate il Real Madrid di Del Bosque, la Roma di Capello se non avete già mandato a memoria tutte le partite nell’anno dello scudetto, la Juventus e dell‘Inter di Trapattoni. Grandi squadre affidate a grandi manager, che oggi sarebbero annoverati nella categoria dei gestori e dei pragmatici. E che con incompetenti giudizi verrebbero etichettati come bolliti cultori di un calcio anni cinquanta. La Roma di Capello, il Real di Del Bosque, la Juventus e l’Inter di Trapattoni, quella di Mourinho, giocavano un calcio splendido. Perché gli allenatori in questione hanno sempre messo i calciatori davanti agli schemi. In questi casi, campioni messi nelle migliori condizioni esprimere il talento. Bene organizzati ma soprattutto liberi di esaltare le proprie caratteristiche.

Come la Roma nel derby. La Roma di Ranieri. Dalla fine della partita che si racconta di una Lazio che ha fatto la partita ma che alla fine la partita l’ha vinta la Roma. Bugia. La Roma ha fatto la partita, anzi l’ha creata, modellata a piacimento e poi ha concesso alla Lazio la possibilità di interpretare il copione che la Roma stessa aveva sceneggiato. Due a zero in neanche venti minuti con due azioni da sigla televisiva. Due gol non casuali o fortunati ma frutto di azioni studiate, e sviluppate in maniera mirabile, figlie di schemi di gruppo e di intuizioni dei singoli. Che semmai hanno evidenziato la disorganizzazione estemporanea di una Lazio che il suo di spartito non sapeva interpretarlo e che non aveva il piano B.

Messo in sicurezza il risultato, col passare dei minuti la Roma ha accettato di soffrire, perché il calcio prevede anche la sofferenza e non soltanto la costruzione dal basso e l’interpretazione di quelle definizioni moderne che stanno rincoglionendo gli appassionati di calcio che ascoltano le litanie giornalistiche degli integralisti. La Roma ha saputo giocare bene a pallone quando serviva, con Ranieri che ha riportato al centro del progetto tecnico i calciatori più forti, cucendo sartorialmente su di loro il vestito da scalatore che serviva per rendere meno obbrobriosa una stagione. Che fino a domenica nel tardo pomeriggio era da quattro in pagella, che da ieri sera è da quattro più, forse quattro e mezzo, sia chiaro. Ma dimostra quanto sia importante mettere sempre i calciatori, possibilmente forti, al centro del mondo. Senza dimenticare che prima dell’uno-due micidiale di Pellegrini e Saelemaekers, sullo zero a zero era andato vicino al gol anche Kone.

Quindi, ricapitolando, come può una squadra che in meno venti minuti va vicino al vantaggio e poi segna due gol al termine di azioni spettacolari, essere considerata sparagnina, catenacciara e per larghi tratti in balia dell’avversario che avrebbe invece fatto la partita? La Lazio ha fatto la partita. Sì. La partita che voleva la Roma.

In the box – @augustociardi75