La nuova vita di Ranieri

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Chiariamolo subito. Non andrà in giro per il mondo zaino in spalla tipo Nakata quando abbandonò in tenera età il calcio giocato. La nuova vita è prevista a Trigoria. Ma con panni diversi da quelli indossati per trentacinque anni. Con un ruolo già chiaro ma con un appellativo da definire. Perché anche in questo caso sarà Dan Friedkin a decidere se sulla targhetta sulla porta del suo ufficio si scriverà Consulente, Direttore generale, Consigliere speciale, o semplicemente dirigente. O meglio ancora Ufficio del signor Claudio Ranieri. Perché le competenze sono quelle che immaginiamo da quando ha firmato il contratto a metà novembre. Ranieri magari manco immaginava che le parole post Roma-Juventus provocassero allarmismo. Rispondeva all’ennesima domanda sul suo futuro, a cui con grande schiettezza aveva già risposto in modo definitivo prima di Lecce-Roma.

Non allenerà più, ma come si vocifera in queste ore non c’è in programma di abbandonare la Roma. Perché i tifosi della Roma temono proprio questo. Di restare al buio se lui se ne andasse. la sua nuova vita prevede una quotidianità diversa dalla routine degli ultimi decenni. I viaggi per il mondo? Di sicuro avrà più tempo libero. Questo non vuol dire che farà come Ibrahimovic che stanzia a Milanello nei ritagli di tempo fra una vacanza con la famiglia e un impegno personale. Normale che guardi al futuro con stimolo, curiosità e magari pure con qualche pensiero. Provateci voi a fare qualcosa di diverso dopo decenni di giornate scandite da allenamenti, doppie sedute, riunioni tecniche, ritiri e trasferte.

All’orizzonte non ci sono ipotesi di fratture. Punti da chiarire sì, ma come in ogni campo quando si intraprende una strada che porta al cambiamento. La piazza romanista è incline all’allarmismo, nell’ultimo decennio ha fatto i conti con il doppio addio di Totti, il doppio addio di De Rossi e con quello di Mourinho. Nervi scoperti e sindrome dell’abbandono, che possono essere giustificati. Ma all’ansia legata al nome del futuro allenatore, si può escludere l’agitazione per un addio che non è previsto.

In the box – @augustociardi75

Leggete le ultime righe ad alta voce

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Per l’ennesima volta c’è qualcuno che indica la strada. Tutto sta nel seguirla e non perdere la bussola. Stavolta è toccato a Ranieri. In passato ci sono riusciti Mourinho, Spalletti, Capello, senza scomodare Liedholm. La Roma storicamente ha bisogno di un capobranco, che sia laureato in carisma e leadership o sia riconosciuto come genio della tattica. Qualcuno a cui aggrapparsi, che abbia carta bianca al netto del budget a disposizione per il mercato. Le scelte a metà, o peggio ancora le scelte naïf, pagano forse a breve termine, ma alla lunga rischiano persino di farti perdere tempo, perché alla fine sei costretto a richiamare il Ranieri di turno.

Ranieri, appunto. Dopo sette vittorie consecutive, al termine di un trimestre a ritmo scudetto, alla vigilia della partita con la Juventus suonavano le campane a lutto. “Ora arrivano le partite impossibili, finiremo ottavi”. Che poi ottava la Roma può arrivare, ma il piagnisteo è sempre più urticante. La piazza che un tempo era accusata di entusiasmo ingiustificato, oggi prova a distinguere nella disciplina del pianto preventivo. Quel modo un po’ piacione di votarsi al mai ‘na gioia. Roba da meme. Roba da social, da mass media attraverso i quali caratterizzarsi. Ranieri, dicevamo. La Roma ha interrotto la serie di vittorie consecutive ma non è uscita con le ossa rotte dal match con la Juventus. Anzi. È viva. Evviva. Ha persino guadagnato un punto sulla terza. E se il Bologna perdesse col Napoli lo avrebbe guadagnato pure sulla quarta. C’è di peggio. Ha saputo reagire. Per niente scontato fino all’arrivo di Ranieri. In tanti erano convnti dopo il gol di Locatelli che fosse tutto finito. Ci ha pensato Ranieri, a cui Shomurodov dovrebbe pagare la provvigione e la pigione. Se soggiorna a Trigoria e diventa persino protagonista, lo deve a lui. Leader carismatico. Come i predecessori menzionati. Ciò che serve alla Roma. Un allenatore capobranco per carisma, oppure un leader assoluto della tattica a cui votarsi con convinzione devota.

Quell’allenatore non sarà Ranieri, nonostante continuino a chiederglielo. Fra i tecnici nominati per la successione, leader sono stati Capello e Mourinho. Ottavio Bianchi, bresciano di stanza a Bergamo, era troppo integralista nei rapporti ma ci siamo come categoria, perché due finali nella stessa stagione, una vinta l’altra persa con macchie arbitrali, non è roba di tutti i giorni. Nella categoria guru della tattica a cui consegnare le chiavi della carriera citiamo Spalletti, e nella sua prima era romanista anche Zeman. Poi? Buone ma fugaci esperienze, non del tutto convinte e neanche troppo convincenti. Oggi i leader sono Allegri, che da un paio di mesi avrebbe almeno la curiosità di conoscere il parere di Friedkin. E poi Conte e Ancelotti, due suggestioni più grandi delle news sul loro possibile arrivo. Poi ci sono le soluzioni di mezzo. Mica così brutte. Perché Pioli non è uno sbarbato alle prime armi, vanta uno scudetto e piazzamenti in Champions League guidando un’outsider, ha allenato nelle metropoli. Ma, seppur bravo a prendersi lo spogliatoio, ha bisogno di pazienza, di incastri. C’è anche Sarri. Tattica e identità, ok, ma in fondo a una lunga carriera ci si domanda se gli sia sempre mancato un soldo per fare una lira.

Facciamo un test. Provate a leggere ad alta voce: “la Roma di Pioli!” Fatto? Ora cambiate cognome, leggendo sempre ad alta voce: ” la Roma di Sarri!”. Ok, un’ultima volta: “la Roma di Allegri!”. Che effetto vi fa? Notate le differenze?

In the box – @augustociardi75

L’ozio e il vizio

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – La mossa spiazzante alla Friedkin potrebbe per paradosso essere addirittura l’annuncio in stile hollywoodiano di Ancelotti. Ma oggi non è come ieri, quando annunciarono Mourinho, perché all’epoca Mourinho non si stava giocando tutto come ora l’allenatore del Real Madrid. E oggi più di ieri le difficoltà della Roma dettate dalla linea di Nyon sono molto più evidenti rispetto al 2021.

Attenzione però a non sottovalutare un aspetto. Nella città in cui persino Ranieri, uno che bada al sodo, disorienta i partecipanti al Fantaformazione che alla vigilia delle partite si prodigano per azzeccare l’undici titolare, come si possono ostentare certezze su nomi da aggiungere o da depennare, i cui destini dipendono dal presidente? Come si arriva a dire “questo non verrà mai” “quest’altro non è mai stato chiamato”? Spesso la rischiosa perentorietà è causata dalla fretta di fare prevalere presunte logiche che nella Roma da cinque anni vanno sistematicamente a ramengo. Soprattutto dopo la conferenza stampa della settimana scorsa, che sembrava avesse tolto dubbi e invece ha aggiunto nomi, perché avendo detto Ranieri che i nomi fatti fino a quel momento andavano tutti esclusi, si è raschiato il fondo del barile cercando di rifare la griglia di partenza coi meno nominati, aggiungendo poi dettagli più o meno realistici per avvalorare le fresche candidature.

Prima della conferenza stampa, in molti davanti in chiusura la trattativa per Gasperini. Post parole di Ranieri, gli stessi che erano certi dell’atalantino, invece che svelare retroscena su come fossero arrivati all’atalantino, si sono prodigati per smentire l’arrivo di Allegri. Strani incastri. Per un weekend nonsense, in cui lo sport preferito nazionale è stato l’annuncio al contrario, al grido “Allegri non verrà”. Questo vizio della perentorietà che trasforma informazioni in sentenze, non è semplice da togliere. Al punto che ora in molti tornano a parlare di Allegri. Spesso perché l’ozio è il padrone dei vizi, e l’ozio notoriamente impigrisce, il fisico e le menti.

Quattro anni fa dicevi Mourinho e via di luoghi comuni, per spiegarti i motivi che non lo avrebbero mai condotto a Roma. E via con la Roma di Sarri, coi campetti in cui scrivere titolari e riserve e staff tecnico. Mancava solo l’indirizzo di dove avrebbe alloggiato. Sappiamo come è andata a finire. Chi diceva Mourinho era forte delle notizie che aveva, ma usava cautela. Chi non aveva notizie ostentava certezze, che si sono schiantate con un modo di ragionare, quello di Friedkin, che più passa il tempo e più non si riesce non a comprendere, ma ad accettare.

Da Mourinho in e poi out a De Rossi out, passando per l’addio della Souloukou, ogni volta che c’è una notizia forte sulla Roma, si rimane tutti con un palmo di naso. Basterebbe questo recente storico per evitare persino di depennare il nome di Ancelotti, figuriamoci quello di Allegri. E addirittura quello di Gasperini. Si prende atto delle smentite di Ranieri, ma non ci si deve fermare alle smentite di Ranieri.

Per Allegri mancherebbe l’ok definitivo del presidente, gli ambienti di mercato che contano, e non quelli improvvisati, vanno in questa direzione, da due mesi, da quando ci sarebbe stato il primo punto di contatto. Primo e non ultimo. L’allenatore livornese oggi considera la Roma più stimolante del Milan. Ma questo varrebbe anche per Conte qualora lasciasse Napoli, per Mancini che già a novembre sarebbe arrivato a piedi, e per Sarri. Manco a dirlo per Pioli, che col Milan ha chiuso e a cui oggi non dispiace che il suo nome torni a circolare perché potrebbe essere ai titoli di coda la sua esperienza d’oro in Arabia. Per Gasperini sarebbe mancata l’intesa sui piani tecnici. Usiamo il condizionale, perché non ci sentiamo così importanti per dire questo sì questo no ostentando certezze, o di smentire in modo quasi sprezzante le informazioni altrui.

Perché sarebbe utile anche quest’anno provare umilmente a prendere atto del modo di ragionare degli americani, che nella stragrande maggioranza dei casi col calcio c’entrano come i cavoli a merenda, ma finché nel calcio opereranno non possono essere considerati un optional da sacrificare sull’altare delle certezze che proprietà passate e vecchi dirigenti concedevano a chi si prodiga per comporre i mosaici.

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L’attaccante condannato

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Tre partite decise in meno di un mese con tre gol da attaccante non da area di rigore, ma da area piccola. Servito con un cross dalla fascia destra, poi grazie a un tiro sghembo su azione d’angolo pochi secondi dopo avere aperto davanti al portiere un piatto che senza deviazione del difensore sarebbe finito a Civitavecchia. Quindi ieri, dopo una mini azione personale quasi al rallenty ma dal coefficiente di difficoltà elevato. Artem Dovbyk segna e la Roma vince.

Undici gol in campionato, dove ha conosciuto anche la panchina, perché la sua prima stagione non è stata rosa e fiori sinora. In una Roma per tanto tempo senza né capo né coda. Parte in causa pure Dovbyk per il flop dei primi tre mesi di squadra e club, ma notoriamente per un attaccante, a meno che non si chiami Luis Nazario da Lima, è un po’ più complicato attecchire su terreni diversi dal proprio habitat, figuriamoci su un terreno non idratato e concimato male, mesi in cui riceveva forse un paio di palloni a partita giocabili, perché il resto erano tutti da controllare e difendere spalle alla porta, fuori area. Specialità che un tempo fu di Bernardo Corradi. Nel Chievo. Non proprio l’ideale per il capocannoniere dell’ultima Liga.

Sempre di più nella Roma rilanciata trasforma i gol in punti da rincorsa. Un cecchino. Ha fatto pace con la piazza? Apparentemente. Perché la sensazione è che un giorno metterà d’accordo tutti soltanto se farà venticinque gol a stagione. Perché già domenica prossima, se di lui ci fosse la versione che fa storcere il naso, si tornerebbe a parlare del suo sguardo triste, del presunto bomber che non decide le partite che contano, che non vale la scusa dell’Ucraina, che non esulta. Non soltanto perché ci ha messo del suo in negativo, ma perché c’è tanta voglia di continuare a bollare come immondizia tutto ciò che è stato fatto sul mercato la scorsa estate.

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Luoghi comuni, pigrizia e Carlo Verdone

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – “Siccome la Roma potrà spendere poco, e visto che Ranieri ha scartato i nomi più gettonati, arriverà Sarri, perché ti fa risparmiare e lancia i giovani”. “Magari tornasse Spalletti, lui si che valorizza il vivaio”. “Allegri no, lui non lavora coi giovani”. “Ancelotti e Mourinho no perché esigono campagne acquisti faraoniche e so’ pure mezzi bolliti”. “Gasperini con la Roma non c’entra niente ed è odioso”. “Mancini è laziale”. “Emery non è da Roma”.

Siamo pigri. Sguazziamo nella comodità del luogo comune e spesso non abbiamo voglia di approfondire. Che poi per approfondire non servono master, perché basterebbe farsi un giro su Wikipedia, se proprio non vogliamo azionare la memoria per analizzare fatti recenti. Tra accordi svelati, nomi scartati, esclusive presunte e affari smentiti, c’è un fil rouge che tiene insieme tutto. Il luogo comune. Lanciato in orbita per ignoranza o per voglia di confondere. E supportato dall’assenza di analisi.

Allenatori per la Roma. Si dice che siccome la Roma non potrà spendere il nome giusto sia quello di Sarri. Togliamo di mezzo la gavetta culminata con l’Empoli e pure i picchi, per blasone, di Londra e Torino, Chelsea e Juventus. Parliamo del triennio al Napoli. Appena arrivato, porta con sé Valdifiori, che doveva essere il faro di mediana. 13 milioni, retrocesso a riserva dopo un mese. In quel mercato estivo lo seguiranno Allan, Gabriel, Hysaj e Reina. A gennaio si aggiunge Grassi dell’Atalanta. Spesa complessiva, 43 milioni di euro. Tanti considerando il modo di operare di De Laurentiis. Secondo anno, via Higuain per 90 milioni, il Napoli per Sarri ne spende 136 di milioni, per Maksimovic, Zielinski, Tonelli, Diawara, Milik e Pavoletti. All’alba della terza stagione arrivano Mario Rui e Ounas, soltanto 14 milioni in due. Giovani lanciati? Non pervenuti. Bravo a fare giocare le squadre e a dare un senso a calciatori in cerca di autore, in quel Napoli arrivarono giovanissimi Diawara, Rog, Ounas e Grassi. Altro giro altro luogo comune, perché l’equazione “giochista uguale valorizzatore di giovani” non è affatto automatico.

Succede quindi che matusa come Allegri e Mourinho piantino e coltivino in prima squadra Fagioli e Miretti, Zalewski e Bove, facendo apparire (aiutando il club per venderli) gente improbabile come Tahirovic, Volpato e Felix. Mentre i santoni della palla a terra tipo Spalletti in carriera non hanno mai svezzato giovani che poi gli avrebbero dedicato la carriera. Ciò vuol dire che Spalletti non sia bravo? No. Spalletti è uno dei più bravi in circolazione, ma sarebbe ora di radere al suolo certe narrazioni false e tendenziose. Così come bisognerebbe accantonare per pudore la strafottenza tipica del nostro territorio.

Conquistavamo il mondo tremila anni fa, oggi nel calcio dovremmo seguire la strada indicata da chi sa come si arriva al traguardo. Soprattutto da quelli che sanno come si conquista. Senza essere schizzinosi. Quindi: Mancini è della Lazio? Ma quando mai, ha tatuato i Fedelissimi della Sampdoria, gruppo storico della gradinata sud del Ferraris. Emery non è da Roma? Forse la Roma non è da Emery, visto che vanta quattro Europa League vinte con squadre di periferia calcistica e che ha appena conquistato con l’Aston Villa i quarti di Champions. Gasperini è antipatico? Se vogliamo allenatori simpatici, speriamo che Friedkin ingaggi Carlo Verdone. Luoghi comuni, comfort zone e pigrizia possono uccidere. Nel calcio uccidono le ambizioni. E alterano la realtà.

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Risultati, boccaloni, solfiti e porte-malheur

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Campioni del mondo di “Che peccato!”, vantiamo una bacheca piena di coppe “A testa alta”. Impanati e impantanati sempre di più nella mediocrità dialettica che predica di identità e costruzioni a scapito della praticità. La new age del calcio salottiero filosofeggia sulle banalità. “Le squadre devono avere un’identità definita”. Come se quarant’anni fa le squadre di Trapattoni non fossero riconoscibili. Come se Capello e Lippi non abbiano lasciato tracce, come se Mourinho e Allegri e Simeone debbano tornare alla prima elementare, apprendendo da chi davanti a una telecamera o in punta di penna insegna il calcio, la vita e svela il futuro. Alla fine conta soltanto e sempre il risultato. È il risultato che svela, presente e futuro.

Guardate che farsa sta andando in scena a Torino. Dalle stelle alle stalle, Thiago Motta ha sedotto e poi è stato abbandonato nell’umido dagli stessi che lo hanno usato come e più di De Zerbi. Juventus eliminata dalla Champions, buttata fuori dalla Coppa Italia e quinta in Serie A. Risultato? Conta il risultato. Vanno a farsi friggere i percorsi, i progetti e le costruzioni, quelle dal basso. Motta il Profeta esonerato con una telefonata, e ora fioccano le ricostruzioni, per gettare ombre sul suo operato. Gli stessi che dopo la vittoria a Lipsia lo incoronavano re, ora lo riempiono di pecette, descrivendolo come distaccato dalla realtà, quasi ottuso, presuntuoso e fuori dal mondo. Auguri a Motta, un allenatore bravo che ha avuto la sventura di essere usato, appunto, da chi elogiando lui altro non voleva screditare il predecessore, Allegri.

Un po’ come fu usato De Zerbi quando la solita cricca combatteva una battaglia stupida contro Mourinho. Salvo accannarlo dopo la sconfitta pesante subita dalla Roma di De Rossi. Fanbase che manco porta troppo bene. Che fa danni, perché aumenta a dismisura le aspettative su chi deve ancora dimostrare tanto.

Hasta la rivolucion! Fino a quando fa comodo. Dalla casa madre juventina decidono di fare emergere i nei dell’italo-brasiliano per giustificare il cambio di rotta e scaricare il barile sul tecnico. E i media nazionali spurgano inchiostro, cancellando mesi di narrazione avveniristica. Motta nel cesso, si tira lo sciacquone, e ora il nuovo manifesto è: la Juventus ha bisogno di allenatori pragmatici! Chi si azzardava a dirlo mesi fa, veniva bruciato in piazza come gli eretici. Informazione nazionale double face.

Il vanto del gioco dimenticando il risultato, stesso copione pure in Nazionale. Quella di Spalletti ha giocato bene una manciata di partite inutili, facendo una figura miserrima agli Europei ed essendo stata tenuta in ostaggio dalla Germania a Dortmund. Ma giammai che si muova una critica. Si tiene il punto per quanto maturato nel secondo tempo, quando i tedeschi avevano staccato la spina. Ci si aggrappa a un rigore dubbio negato dal VAR, e già si prepara la sfida a Haaland in un girone ridicolo di qualificazione ai Mondiali, manco fosse la Superlega delle nazionali. In altri Paesi, commissario tecnico e presidente federale sarebbero stati defenestrati dopo la figura indecente della scorsa estate. Qua al massimo si dà la colpa dello sfacelo ai bambini che non giocano più a pallone nei cortili.

La Germania è più forte? E proprio per questo un tempo si sarebbe provato a contenere e ripartire (non useremo la parola contropiede per evitare l’evirazione). Oggi, invece, per opporsi a Musiala e compagni si tentano i passaggetti nella propria area e a ridosso della stessa, zone albergate da belli de mamma esaltati dalla cronache nazionalistiche ruffiane, che urlano al fenomeno per calciatori normali tendenti al buono, figli di una generazione di ragazzi che da quando sono piccoli vengono rincoglioniti dai media e dagli allenatori che scimmiottano gli dei del pallone. I danni del guardiolismo. Tentativi di imitazioni del più grande di tutti, che non è replicabile.

A Roma questa moda va e viene, a seconda delle antipatie. Se c’è Mourinho esonerato si “usa” De Rossi. Ricordate? La squadra è forte, è il portoghese che la svilisce. Risultato? Aspettative eccessive sul giovane allenatore, che meritava di essere accompagnato e che invece è stato, appunto, usato. E se nomini Allegri, c’è chi bussa a Farioli. Legittimo, se non fosse che chi ha gusti moderni, non tollera coloro che la pensano diversamente. Un tempo la parola bollito faceva venire in mente le taverne piemontesi. Oggi è l’espressione più usata da chi, non potendo contare sulla forza delle idee, mette in piedi teatrini mediatici che al massimo possono fare breccia tra gli adolescenti superficiali che bazzicano i social o negli adulti boccaloni che si bevono di tutto, dai vini pieni di solfiti alle cazzate propinate dai media. Quelli che consideravano Ancelotti un vecchio rincoglionito. Imboccati da comunicatori impreparati.

In the box – @augustociardi75

Tutti gli uomini per il presidente

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Passiamo in rassegna la lista dei nomi accostati e accostabili alla Roma. Tra informazioni credibili, bufale e deduzioni.

ANCELOTTI – Con la calma serafica che lo contraddistingue, rimanda la decisione sul suo futuro alla fine della stagione, quando senza fretta parlerà con Florentino Perez. Come dargli torto? Può permettersi di aspettare quanto vuole, lo cerca persino il Brasile. E piace a Ranieri. Perché il tecnico della Roma, e consigliere del presidente, qualora portasse Ancelotti in giallorosso, chiuderebbe un cerchio. E la Roma si godrebbe una coppia di senatori magnifica. Un primo contatto, tempo fa, è stato stabilito.

ALLEGRI – Anche lui piace a Ranieri. E ad Allegri piace la Roma. Una sfida intrigante. Forse con più stimoli di quanti ne offra il Milan. A Milano ha casa e a Milano ha già vinto. Il Milan lo sta costeggiando costantemente, allettandolo anche con la prospettiva di ritrovare Paratici. Ma Allegri non ha ancora detto sì. La Roma fa in tempo a inserirsi e chiudere l’operazione. O meglio, Friedkin fa ancora in tempo a intervenire per dare l’ok decisivo. Perché i presupposti sono lì, a portata di mano.

MONTELLA – Uno dei calciatori più amati dalla tifoseria. Una delle operazioni che lascerebbe più amari in bocca se fosse scelto come allenatore. La disponibilità c’è, sarebbe la trattativa più semplice da formalizzare fra le ipotizzabili. Ma tra l’aeroplanino e Mister Montella ci passano un mare di dubbi. Sulle sue capacità di riportare in alto la Roma e sulla veridicità delle ambizioni del club. Soluzione pronta all’uso. In caso di bisogno, tirare la maniglia e lui arriva. Di corsa.

FARIOLI E FABREGAS – Ci azzardiamo a liquidarli in coppia. Possono conquistarsi il futuro, Ranieri, sollecitato sull’argomento, ne ha parlato in due occasioni distinte, coniugando i verbi al futuro, appunto, riferendosi al loro valore. Dando la grossa impressione che l’accostamento alla Roma sia prettamente mediatico. Si possono fare, si faranno, ma non ora.

GASPERINI – Stavolta può davvero lasciare l’Atalanta. Se se così fosse, il nome circolerebbe (circola già) per la Roma, la Juventus, il Napoli, il Milan. Per le squadre che cambieranno probabilmente allenatore. Ranieri durante le feste di Natale ha specificato che i Friedkin non hanno intenzione di emulare l’Atalanta, perché vogliono che la Roma torni in fretta nell’elite del calcio. Quindi per molti Gasperini non è adatto. Poi però basta guardare il suo cammino con l’Atalanta e si scopre che, considerando la storia dell’Atalanta, ha impiegato tre mesi per prendersi lo spogliatoio e Zingonia. Come dite? È antipatico? E allora mettiamoci Carlo Verdone in panchina. Sai che risate.

SARRI – Per chi all’epoca ci era cascato, doveva arrivare nel 2021. Così diceva Pinto. Che però non sapeva di Mourinho. Il suo nome circola per la Roma e per il Milan, pure per la Fiorentina. Ciclicamente. Non convince del tutto, anche perché pur avendo vinto l’Europa League, quando parla delle coppe pare essere la cosa più distante dalla Roma degli ultimi anni, perché non manca mai occasione per ricordare quanto fastidio per il lavoro di campo causino gli impegni infrasettimanali. Che invece sono stati il salvavita della Roma dal 2018 in poi.

EMERY – Andava preso quando lasciò il Siviglia. Quando lasciò il PSG, quando andò via dall’Arsenal e dal Villarreal. Si può prendere ora? Difficile, ma non impossibile, anche perché sarebbe perfetto, ma oramai tutti hanno capito che è un top manager. Anche quelli che per moda parlano soltanto dei nuovi profeti giochisti che vanno in panchina coi maglioncini slim size abbinati a pantaloni morbidi e scarpe comode.

CONTE – Di solito resta almeno un biennio. Ma a Napoli, con De Laurentiis, può succede di tutto. Concentrato sulla lotta per lo scudetto, nonostante un mese e mezzo pieno di passi falsi, non ha mai digerito la gestione della cessione di Kvaratskhelia, con conseguente arrivo di Okafor. A persone vicine ha fatto intendere di poter lasciare. A prescindere dallo scudetto. Qualora fosse, la concorrenza sarebbe spietata, perché può tornare alla Juventus o andare al Milan, che ancora si mangia le mani per avere puntato su Fonseca e non su di lui.

DE ZERBI. – Dopo il poker che gli ha tirato giù De Rossi un anno fa il suo nome non è più sulla bocca di tutti. Manifesto mediatico della setta dei giochisti invasati, a Marsiglia sta facendo molto bene, laddove domina il Paris. Radiomercato vede in lui il dopo Gasperini all’Atalanta. Alla Roma lui disse non quando con l’ultimo Pallotta si faceva il giro delle sette chiese per trovare uno che volesse allenare i giallorossi. In giro per l’Europa è cresciuto e si è fatto apprezzare. Ma non si è ancora consacrato.

MOURINHO – Per un suo ritorno, servirebbe un passo indietro e uno verso di lui da parte di Friedkin. Quindi allo stato attuale delle cose, è inutile parlarne. Proponendo lui, Ranieri si guadagnerebbe l’eterna gloria conferita da quella parte di piazza che ancora si ricorda che in quindici anni di chiacchiere e di chiacchieroni, di propagande spesso servili e presunte e artefatte opposizioni, l’unico momento in cui la Roma ha vinto c’era Mourinho in panchina. Ma le chiacchiere stanno a zero. Non si vedono i presupposti.

In the box – @augustociardi75

La guardia medica

LR24 (AUGUSTO CIARDI) È la prima volta da quando a fine agosto si è capito che sarebbe stata una stagione tribolata, che la Roma ha l’occasione per dare un senso al campionato. Battendo il derelitto Monza, peggiore squadra della Serie A, per rendimento e non per organico, rimarrebbe nona, ma avvicinerebbe in classifica la zona in cui è legittimo parlare di qualificazione alle coppe. Un contentino, una galletta di riso dopo mesi di digiuno, ma meglio di niente. Nove partite senza perdere, sei vittorie e tre pareggi, e un turno favorevole, considerando i passi falsi di Bologna, Milan, Fiorentina e Lazio. Per continuare a giocare le coppe europee, per non interrompere una striscia positiva che rende la Roma esempio virtuoso oltre i confini dal 2018, o si vince l’Europa League, difficile, o si rincorre chi sta avanti in classifica. Impresa che oggi sembra un po’ meno impossibile.

Dopo il Monza, ci saranno il Como, ancora in casa, poi l’Empoli fuori, il Cagliari all’Olimpico e il Lecce in Puglia dopo la sosta. Quindi la Juventus a inizio aprile. Cinque partite, Monza incluso, agevoli. In mezzo ci sarà il Bilbao. Obbligatorio provarci. Senza amnesie perché la Roma se ne è già approfittata in autunno, dimenticandosi troppo spesso come si gioca e come si fanno i punti.

Ancora una volta Ranieri dimostra ciò che sa fare meglio. La guardia medica che di notte, con le farmacia e gli ambulatori chiusi, chiami disperato perché la febbre del pupo sale e lo fa vaneggiare, e la guardia medica ti guida dandoti le dritte giuste e le somministrazioni adeguate per riportarlo in salute. Ranieri che ha superato incolume la sua settimana di impopolarità, a cavallo della trasferta di Venezia, quando pure lui era stato tacciato di essere l’aziendalista che reggeva il gioco a Friedkin intento a demolire le ambizioni dei tifosi. Spalle troppo larghe per crollare davanti a qualche bocca storta o a sporadiche maldicenze.

Guai a fermarsi. Fra Monza e Lecce, passando per Como, Empoli e Cagliari, l’ideale sarebbe non scendere sotto i tredici punti su quindici. Anche perché sarà pure meno impresa di quanto si potesse immaginare, ma l’Europa League al momento, con una partita in meno della Lazio, dista dieci punti. Sette, se stasera di rispetta il pronostico. Con il derby di ritorno da giocare e quello di andata che ha già fruttato la vittoria.

In the box – @augustociardi75

MMTS: messaggi manco troppo subliminali

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Che la Roma dia l’impressione di avere difettato in dialettica, è un pensiero diffuso. Nel giro di poche settimane, ciò che faceva sperare in un rilancio legato al mercato (di gennaio ma soprattutto estivo), ha scaturito un effetto boomerang per gli equilibri mentali instabili di una piazza logorata da una stagione in cui campionato e Coppa Italia sono l’ennesima, mesta, via crucis. Al punto che, a pochi giorni dallo spareggio col Porto, nelle competizioni che da tanti anni sono l’unico grande vanto sportivo, la febbre non sale, non stiamo neanche a uno stato di alterazione.

Perché la conferenza stampa di Ranieri pre Venezia, le sue parole post match, e le dichiarazioni di Ghisolfi al Corriere della sera, rimbombano nelle teste, e il rumore non viene attutito neanche da una buona striscia di risultati positivi consecutivi, perché spostano pochissimo in una stagione pessima. Fair play finanziario per i tifosi della Roma come la kryptonite per Superman. Al riecheggiare della maledetta definizione, il morale non lo trovi più manco sotto ai tacchi. De profundis? De profundis.

“Scordiamoci i top manager, scordiamoci i top player, prepariamoci a essere una volta per sempre una specie di Torino, con tutto il rispetto per il Toro”. Questa più o meno in sintesi la percezione del futuro. Difficile provare a interpretare almeno una parte dei pensieri messi in voce a Trigoria senza essere tacciati di collusione mediatica.

Sarebbe quindi da autolesionisti provare, almeno in parte, ad aggiungere una costruzione mentale che non sia troppo fantasiosa? Facciamoci del male. Abbassare il monte ingaggi non significa soltanto acquistare calciatori con stipendi inferiori al milione e mezzo di euro. Vuol dire pure una volta per tutte salutare gente che ha guadagnato tanto e reso poco. Perché ancora oggi la Roma sconta una politica di rinnovi da default. Sconta l’epoca dei quinquennali da almeno tre milioni a stagione. Una follia che si è schiantata con classifiche imbarazzanti. Ranieri, dopo una vita, ha tolto il posto fisso a Pellegrini e Cristante, tanto per fare un esempio. E quando parla di monte ingaggi da abbassare è lecito anche pensare che sia un messaggio manco troppo subliminale recapitato a calciatori e agenti che devono rendersi conto che il tempo nella Roma è in esaurimento. La stessa strada devono iniziare a conoscerla anche gli altri della vecchia guardia. Arrivare alla scadenza di contratti legittimi quanto illogici, è nei diritti degli atleti, ma comporta sconvenienza per la squadra e per le carriere degli stessi atleti. La Roma è anche andata incontro, in modo apparentemente altrettanto illogico, ad alcune scuderie, per esempio rinnovando il contratto a Zalewski prima di girarlo all’Inter.

Fair play finanziario o no, la tabella di marcia chiama almeno due anni di ritardo riguardo cambiamenti tecnici necessari. Urgenti. Il finale di campionato deve servire per rafforzare il messaggio. Anche perché servirà poco ai fini della classifica. Più utile, persino dal punto di vista tecnico, provare a farsi un’idea su Soulé e sui nuovi arrivati, piuttosto che continuare a vedere i vari Celik e Shomurodov e ai soliti senatori a fine mandato. Dando un senso a tre mesi di campionato altrimenti deprimenti. Non sarebbe la rivoluzione auspicata, ma almeno si percepirebbe la volontà di uscire da uno stallo insopportabile.

La Roma non fa più notizia manco quando perde. Non fa notizia quando vince perché sono vittorie per passare dal decimo al nono posto. E non ha nemmeno più quel tipo di personaggi che comunque accendevano i fari dei media. Un anonimato da combattere.

In the box – @augustociardi75

Colpa Italia

LR24 (AUGUSTO CIARDI)  Arrendiamoci. La Coppa Italia non è più una cosa per la Roma. Da quando sono arrivati gli americani, quattordici anni fa, uno dei vanti del club e dei suoi tifosi è stato buttato nell’immondizia, è stato trasformato in un’onta continua, reiterata. Passata in parte sotto silenzio perché si è anche radicata la convinzione che la Coppa Italia non sia un obiettivo. Perché per gli uomini d’affari d’oltreoceano, e per i loro sodali, non porta business, ‘o bissnèss, non crea indotti economici. Amen.

Milan-Roma non si cataloga nel cassetto delle partite di Coppa Italia patetiche, tipo i confronti con lo Spezia, due partite e tre sconfitte, con lo staff di Fonseca che sta ancora leggendo il regolamento sulle sostituzioni, o come la ridicola esibizione di Firenze, prendendone sette, con il grande Pallotta che a chi gli chiedeva conto rispondeva Ask Monchi, perché quelli erano i tempi delle ripicchette interne a Trigoria, coi dirigenti che piuttosto che la Roma difendevano le proprie idee e le poltrone. Per tacere di Torino-Roma, con il Prof Di Francesco che siccome dopo pochi giorni c’era da andare a perdere in casa della Juventus (quando in casa della Juventus si andava soltanto per perdere), mise in campo contro il Torino una squadra impresentabile.

Poi vabbè c’è la finale del 2013, il derby in cui a Spalletti fanno scaccomatto con Keita Balde versione Garrincha, e la Roma di Mourinho che crolla miseramente sotto i colpi della Cremonese, che all’epoca non vinceva neanche le amichevoli. Un incubo. Arrendiamoci. Che in campo ci siano calciatori forti o inadeguati, che in panchina siedano presunti scienziati o santoni, la Roma da quasi quindici anni ha trasformato la Coppa Italia in una colpa, che devono scontare quei tifosi che ancora ci tengono. Perché negli anni non c’è stato un dirigente all’altezza in grado di trasmettere l’urgenza di vincere, la necessità di mettere in bacheca le coppe.

La Roma dal 2011 manca di dirigenti carismatici più che di terzini e vice centravanti. Non è andata meglio con Ranieri in panchina.

Leggi la formazione iniziale e ti chiedi perché?

Titolari Celik e Shomurodov, gente che durante gli ultimi giorni di mercato fai fatica a piazzare pure se prospetti ai richiedenti un contributo per il pagamento degli stipendi. Provi a credere nella rimonta dopo l’intervallo e per l’ennesima volta i bordocampisti raccontano ai telecronisti che allenatore e collaboratori si sbracciano per indicare a Pellegrini cosa deve fare e in che zona del campo debba farla. Come se Pellegrini il primo tempo non lo avesse visto, come se mentre si scaldava non avesse ricevuto indicazioni. Uno strazio. Rassegnazione. Si archivia la Coppa Italia come si è archiviato il campionato. Con mestizia.

Ci si aggrappa all’Europa League? Quando a ridosso della doppia sfida con il Porto si apriranno dibattiti sull’utilizzo di Cristante, Pellegrini, Celik e Shomurodov? Aggrappiamoci all’Europa League. Peggio di così…

In the box – @augustociardi75