Si stava peggio quando si stava peggio

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Il PSG vince la prima Champions League della sua storia, grazie a un capolavoro di Luis Enrique. Tutto il mondo lo celebra. A Roma si litiga. Pazzia da primo caldo estivo? No, amarcord cacio e pepe. Si riavvolge il nastro e si va nel sottoscala, a pescare nelle scartoffie ingiallite e ammuffite. Bisogna rievocare il 2011. Tutti a bordo della macchina del tempo. Verre, Luigi Errichetto, mai schiavi del risultato, tornatene a Barcellona, il possesso palla, lo Slovan, sospiri dei nostalgici che ricordano “l’epopea” di DiBenedetto e Baldini, ossia si stava peggio quando si stava peggio.

Non se ne esce. Roma va in loop. Le si è incantato il disco. Si aspetta l’evento per rimpastare la storia. Una ripassatina in padella e la polemica è pronta, rancida ma fumante. Si schierano le truppe cammellate. Affilano le armi anti e pro Pallotta-Baldini-DiBemedetto-Baldissoni-Sabatini. Non se ne esce. Non si godono neanche una partita di calcio, anzi una lezione di calcio impartita da Luis Enrique, che in questi casi non viene esaltato (o criticato quando c’è da criticarlo) spontaneamente, bensì usato per giocare una patetica partita che non assegna trofei. L’unico intento è rinfacciarsi un passato passato invano, perché la Roma dal 2011 si fa notare più per le chiacchiere sterili che per i risultati.

Non mancano ovviamente riferimenti a Mourinho, il prezzemolo di chi lo odia e lo inserisce in ogni frase. Partono i confronti fra il piazzamento della Roma del portoghese e quella dello spagnolo. Senza motivo. Effetti del disturbo ossessivo compulsivo. La Roma è un gioco di ruolo. Vedove, cecchini, accusatori, nostalgici, quelli che se la prendono coi ruffiani lacchè di oggi dimenticando di essere stati a loro volta i ruffiani e i lacchè di ieri. Tutto il mondo si lustra gli occhi guardando il Paris Saint-Germain di Luis Enrique, straordinario uomo e magnifico allenatore. Roma scende in cantina e fa prendere aria ai ritagli d’epoca. Non c’è soluzione. Non se ne uscirà mai.

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Liberi da che cosa?

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Ci siamo concentrati sulla rincorsa alla zona Champions League nella speranza che la semi impresa di Claudio Ranieri diventasse un miracolo. A mente fredda, a campionato chiuso, guardando la classifica, ci chiediamo in cosa la Roma avrebbe potuto fare meglio negli ultimi mesi, e ci viene da maledire la serata di Bergamo, perché il percorso nel girone di ritorno è stato affrontato a ritmo scudetto. Ma la classifica finale parte da Cagliari-Roma e termina a Torino-Roma. E allora, preso atto dell”ennesima stagione che si giocherà senza Champions League, evidenziamo anche un altro dato.

La Roma ha chiuso il campionato a 13 punti dal Napoli, senza mai avere dato la percezione di potersi avvicinare al podio. Come troppe volte accaduto negli ultimi anni. Quasi 7 vittorie di differenza. Un’enormità senza senso. E pensare che il Napoli non è la Juventus, non è l’Inter, non è il Milan, squadre che nei decenni spesso hanno staccato la Roma in classifica annichilendo ogni speranza di competitività. Napoli e Roma appartengono alla stessa categoria. Sono storicamente club che provano a contrastare i potentati del nord, riuscendoci una volta ogni venti anni, raccogliendo briciole e collezionando arrabbiature epocali, lamentando torti e costringendosi a celebrare le poche stagioni epocali del passato. La Roma come il Napoli, come in parte la Lazio, come in minima parte la Fiorentina.

Nel mentre, da troppo tempo, a Roma si è abbassata l’asticella delle aspettative. Dall’arrivo degli americani, si contano sulle dita di una mano le partecipazioni alla Champions League e avanzano anche, le dita. Nel mentre, realtà periferiche sono cresciute. Da poco meno di dieci anni è esploso il fenomeno Atalanta. da rivelazione a realtà consolidata. La Roma le ha fatto spazio fino al punto di essere soddisfatti se si perde di misura a Bergamo.

“E che vuoi andare a fare punti a casa di Gasperini?” Era il motivetto stonato cantato dalla propaganda della prima Roma americana. Stava diventando normale che, oltre alle grandi del nord, si pagasse dazio pure all’Atalanta. Roba da sbattere la testa contro gli spigoli. La Roma che per fatturato e monte stipendi stava nettamente davanti ai nerazzurri, non poteva più neanche immaginare di competere con loro. Oggi c’è pure il Bologna. Sì, la squadra che ha vinto la Coppa Italia dopo quasi mezzo secolo. E via a lodare il lavoro degli emiliani e a sospirare “magari sapessimo farlo pure noi”.

Noi che da troppo tempo ci siamo specializzati nelle celebrazioni degli avi. Ogni giorno una ricorrenza. Ci esce la lacrimuccia nel giorno dell’anno in cui abbiamo battuto il Barcellona di Messi. Ci sale l’erezione il giorno del compleanno dei nostri idoli. Rimpiangiamo direttori sportivi che in carriera non hanno manco mezzo trofeo, esultiamo se il Sunderland viene promosso in Premier League obbligandosi a riscattare Le Fée. Rimpiangiamo le plusvalenze realizzate vendendo Marquinhos e Alisson. Ci battiamo il petto per gli ottantasette punti di Spalletti. I calciatori vantano più targhe regalategli dai volenterosi club dei tifosi che obiettivi raggiunti. C’è un appiattimento che fa spavento. Speriamo che venga l’allenatore X così da poter rinfacciare allo speaker o allo streamer odiato di avere detto che sarebbe arrivato l’allenatore Y. Viviamo perennemente in uno spin off. Gli altri giocano, competono, vincono. Noi giriamo film che vedremo soltanto noi, nella nostra testa. Intorpiditi.

Il Napoli in tre anni ha vinto due scudetti. In due modi diametralmente opposti fra loro. Noi facciamo la guerra dei sottoinsiemi: la scelta dell’allenatore la commentiamo in base ai nostri interessi, io sono per i pragmatici tu per i giochisti, devo vincere la mia partita e soltanto dopo, forse, si penserà alla Roma. Sosteniamo le correnti di partito, ci si schiera a seconda di simpatie o antipatie nutrite ne confronti di dirigenti, addetti stampa, maestranze che frequentano Trigoria. Nel frattempo, la bollente tifoseria del Napoli nel giorno della celebrazione della squadra che sui pullman scoperti passeggia per lungomare Caracciolo, al netto delle classiche esagerazioni, ostenta una sorta di pacatezza mentale. Sapete perché? Perché vincere a Napoli non sarà diventata un’abitudine, ma ora sanno come si fa, hanno acquisito consapevolezza. In tre anni lo stesso numero di scudetti vinti nei precedenti novantasei. Vincere fa bene e per provare a farlo ancora anticipano tutti puntando De Bruyne. Danno la sensazione di avere fatto il salto di qualità. A Roma, dall’arrivo degli americani, vincere è diventato un optional. Un trofeo, europeo, dal 2008.

E il pensiero corre al 2011, quando all’annuncio della cessione del club in molti scendevano in piazza con la bandieretta in mano. Giallorossa? No. Stelle e strisce. Urlavano “siamo liberi”.

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Er patata

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Il capolavoro dipinto in sei mesi da Claudio Ranieri può essere deturpato soltanto in un modo. Credendo che la rosa attuale della Roma possa essere esposta tale e quale durante la prossima stagione. Persino le squadre che vincono si cambiano. Rendendole ancora più forti e potenzialmente più vincenti, per una questione di stimoli interni e perché sicuramente si rafforzeranno le concorrenti. La Roma del primo Ranieri avrebbe meritato lo scudetto più dell’Inter che grazie a quel titolo poté poi fregiarsi del triplete. L’anno dopo la Roma fu un disastro. All’epoca c’erano evidenti difficoltà finanziarie. Oggi ci sono dei paletti che somigliano a tagliole ma c’è indiscutibilmente più margine di manovra e di intervento.

La riabilitazione der Patata Verdone finisce in farsa. Se la Roma deciderà di ripartire da chi fino a tre mesi fa sembrava impresentabile, si corre lo stesso rischio. In primis perché non è detto che chi ha fatto flop rimanga di nuovo a guardare. Potenzialmente il Milan tornerà competitivo, la Fiorentina di Palladino potrà crescere, e se la Juventus azzecca l’allenatore non è detto che fra un anno stia lì a giocarsi punto a punto a metà maggio l’ultimo posto valido per entrare in Champions League. Da copione, dovrebbe tornare a competere per lo scudetto. Constatando poi che dopo l’Atalanta fra le realtà consolidate possiamo forse definitivamente annoverare il Bologna, bisogna stare attenti alle nuove e ricche realtà. Che ruolo giocherà l’ambizioso Como?

In tutto questo, lodando e ringraziando chi è stato reso utile e funzionale da Ranieri, a cominciare da Celik e Shomurodov, sarebbe peccato mortale pensare di ripartire da loro come protagonisti, essendo stati nell’ultimo semestre parte integrante di una squadra che numeri alla mano per mezza stagione ha avuto un ruolino di marcia da podio. La Roma non potrà immettere sul mercato cifre da capogiro, ma se vuole davvero tornare nell’elite della Serie A, ha bisogno di titolari di livello in ruoli per cui Ranieri ha fatto più che un miracolo una magia. La Roma tornerà competitiva se Celik, Cristante, Baldanzi, Shomurodov, Pisilli, Pellegrini, El Shaarawy e gli stessi Paredes e Saelemaekers diventeranno riserve laddove sarà impossibile cederli. Se non si dovrà attendere i Dybala come l’uomo a cui affidare il proprio destino e se possibilmente arriverà un centravanti che ogni settimana lasci fino all’ultimo momento all’allenatore il dubbio se schierare lui o Dovbyk.

Er projjecto

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Il Real Madrid annuncia l’acquisto di Dean Huijsen postando sui social il gol del difensore realizzato dopo un coast to coast contro il Frosinone. Con la maglia della Roma. Quel giorno fu archiviato nella categoria del surrealismo romanista. Quel filone piacione caratterizzato dal riempirsi la bocca di principi filosofici sistematicamente smentiti dalla natura di chi li ostenta. Huijsen arriva alla Roma dopo che la Roma ha schivato il sasso Bonucci, perché proprietà, dirigenti e allenatore stavano per compiere un passo falso sia dal punto di vista tecnico sia dal punto di vista ambientale. Al dirigente fanno notare che in tempi grami bisogna aguzzare l’ingegno prendendo un giovane talentuoso che orbitava attorno alla Juventus. Le narrazioni appartenenti al filone fantasy parleranno di iniziativa presa dal dirigente, che invece si mosse, bene, soltanto dopo essere stato imbeccato. Huijsen parte con un fallo da rigore che elimina la Roma nel derby di Coppa Italia, ma poi si rifà, mostrando le doti classiche dei predestinati. Ma anche gli errori tipici di gioventù, di crescita. E qui entra in ballo la piazza, composta da tifosi che sui social si danno un tono cercando di crearsi il personaggio, e di addetti ai lavori che si danno un tono emettendo sentenze. Quelli del progetto, anzi der proggetto, o meglio d’el projjecto, perché alla spagnola fa più effetto. Che predicano lungimiranza ma poi disintegrano un ragazzino che nel giro di un anno va al Real Madrid. Perché nel frattempo Pinto è stato bravo a portarlo al Bournemouth, e a rivenderlo in Spagna. Huijsen va in Premier League il trenta luglio. Per 15 milioni di euro. Si narra che la Juventus chiedesse 30 milioni, ma ogni club chiede molto più di quello che otterrà. Cairo per Belotti voleva 100 milioni. La Roma non prese mai in esame la possibilità di rinegoziare l’accordo. De Rossi dopo una partita a Udine lo accantonò. Legittimo, un allenatore deve ragionare sul presente. E involontariamente accontentò parte della piazza romanista che lo aveva bollato come giocatore scarso dopo averlo già condannato perché macchiato di juventinità. Questa è la storia degli ultimi sedici mesi di Dean Huijsen, appena acquistato dal Real Madrid. Che lo ha presentato mostrando il gol che fece al Frosinone. Quella sera fu Huijsen massacrato dai tifosi ciociari, arrabbiati perché aveva preferito la Roma alla loro squadra. Ci sta. Fu bollato come provocatore perché dopo il gol esultò “cercando” i tifosi avversari dello Stirpe. Un altro gol lo fece Azmoun, che ebbe la bella pensata di chiedere scusa ai frusinati per la provocazione precedente del compagno di squadra. Surrealismo romanista: grande Azmoun! Evviva la sportività! Al rogo Huijsen! Provocatore, oltre che pippa e juventino. Un delirio. Alla faccia del progetto. Della lungimiranza. E di tutte le belle parole di cui ci si riempie la bocca per darsi un tono.

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Surrealismo, Mar Morto, De Siervo, Farioli e Italiano

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Una giornata indimenticabile. Surrealstica, quasi fantascientifica. Succede che al termine di una riunione di Lega, prenda parola un signore a cui serve il sottopancia per permettere ai telespettatori di capire chi sia. Un tempo inquadravano Nizzola e Galliani e capivi al volo che parlavano da presidenti di Lega. Oggi se ascolti De Siervo senza sapere chi sia, credi che stia parlando il Ministro dell’Interno o il Comandante generale della Guardia di finanza. Perché parla di sanzioni, di commissariati, di controlli a tappeto, di danni causati all’azienda che lo ha eletto Amministratore delegato. Poi capisci che è soltanto De Siervo alle prese con l’ennesimo scivolone dialettico. “Se paghiamo tutti, pagheremo meno”. Agli antipodi dei claim commerciali.

De Siervo fa calcoli nonsense, capo della Guardia costiera del Mar Morto del pallone e quindi avversore della pirateria. De Siervo moltiplica il numero di abbonati fuorilegge al pezzotto per i costi di abbonamento a dazn e sventola il prodotto finale, centinaia di milioni di euro, che riconduce alle perdite finanziarie dei poveri club, causate dai pirati del web. Follia. Non gli passa per la testa che chi si vota all’illegalità non ha alcuna intenzione di rientrare nella legalità, se la legalità è costituita da un servizio non all’altezza non giustificato dai costi di abbonamento. Vince facile, De Siervo, fra i media. L’improvvisata conferenza stampa è in realtà un comizio. Zero contraddittorio, nessuno che gli faccia notare che le regole dell’attrazione commerciale dovrebbero prevedere che il servizio proposito sia di qualità e che i prezzi siano popolari, affinché cresca il numero di abbonati soddisfatti. Invece no. La scorsa estate i prezzi di Dazn sono aumentati, ma gli abbonati alla piattaforma non hanno più nel pacchetto le coppe europee. “Pagare di più per vedere di meno”. Altro che “pagare tutti per pagare meno”.

Nel frattempo il bravo allenatore Farioli, nuovo vessillo degli sciacalli della setta dei giochisti integralisti, rialza le sorti di un Ajax reduce da un anno buio, ma per inesperienza della rosa alla penultima giornata ha quasi buttato il titolo olandese, dilapidando un vantaggio in classifica monstre nei confronti del PSV. Di colpo, Farioli diventa ingiustamente uno zimbello sui social, perché in molti sui social diventano iene, ma anche perché gli sciacalli della setta già citata hanno creato attorno a Farioli aspettative esagerate. Chissà se, come accadde con De Zerbi un anno fa dopo la sconfitta subita dalla Roma di De Rossi, pure Farioli verrà abbandonato perché la sua immagine è stata annacquata dal sorpasso del PSV. Meglio per lui se certi sostenitori spariranno. Avrà modo per dimostrare il suo enorme potenziale.

Chiusura con la Coppa Italia. Italiano merita il trionfo, è un allenatore bravissimo e molto preparato, sta eliminando alcuni difetti concettuali che rischiavano di non fargli raccogliere quanto merita. Ma al fischio finale del match contro il Milan, gli intolleranti ossessionati dal calcio pragmatico si sono scatenati per parlare male di Allegri. E di Mourinho. Una psicosi, una patologia senza cura. Sono gli unici che ancora parlano di tecnici che definiscono bolliti. Inutile ricordargli che il dinosauro Allegri la Coppa Italia l’ha vinta un anno fa. Forse neanche lo sanno. Ragionano per slogan. Sbagliati. Un po’ come De Siervo.

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Filosofia spicciola

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – La Nuova Era del calcio partorisce domande e considerazioni che un tempo non avevano ragione di esistere. Domande e considerazioni proliferano in ambienti pigri che si considerano fucine di pensieri profondi, i salotti sedicenti buoni dei mass media nazionali che si arroga il diritto di giudicare il calcio popolare. Piazze attorno alle quali, filosofeggiano, passeggiando, novelli peripatetici. “Ma se prendi un allenatore di grido, sarà l’uomo giusto? Cosa viene a fare se non c’è un programma?”. Già, perché sono i nuovi filosofi a stabilire se i club abbiano un progetto valido. Mica si pongono il dubbio che magari si prende un allenatore di grido per cambiare marcia. Mettono in discussione gli altri ma mai se stessi. Il culto super ego che notoriamente ottenebra le menti.

È il calcio delle parole ricercate per darsi un tono: il pallone non si passa più, si trasmette. Se il mediano recupera palla e parte verso l’area avversaria coi compagni di squadra che lo affiancano smarcandosi, la chiameremo transizione, perché è una parola che cattura l’attenzione. Parole, parole, parole. Si estrapolano frasi, spesso banali, di allenatori in voga, e si scolpiscono nella pietra. Perché c’è scarsa capacità nel distinguere banalità e massime da tramandare.

Arteta, bravissimo allenatore, commentando la Premier League, ha rivendicato gli ottimi recenti campionati dell’Arsenal, ricordando che la sua squadra ha il merito di rimanere in scia di chi vince il campionato, e che se rimani in scia prima o poi tocca a te. Caramelle al miele per i cultori del calcio parlato. Banalità clamorosa, a pensarci bene. Perché non sta scritto da nessuna parte che se rimani in scia un giorno sarai tu a produrla. L’Arsenal sta in scia da decenni, ma continua a non vincere il campionato. Ciò non va imputato ad Arteta, che voleva soltanto difendere il suo eccellente lavoro. Basterebbe non farne un una frase motivazionale da incorniciare e appendere in ufficio.

Nel calcio è tutto più casuale di quanto si possa credere. La prima Roma americana è stata un mezzo decennio dietro la Juventus. Quando la Juventus ha abdicato, gli scudetti li hanno vinti le milanesi e il Napoli. Quindi? Il Napoli con Spalletti ha vinto uno scudetto che aggrada i gusti dei filosofi moderni. Bene, bravi, ma il bis lo sta facendo Conte, con un modo di lavorare che sta agli antipodi. Che si è fatto comprare per quasi trenta milioni il trentaduenne Lukaku.

Quindi? Basterebbe scendere dal piedistallo. Smettere di credersi maestri di vita e di calcio, accettare chi la pensa in modo diverso senza essere convinti di stare sulla terra per diffondere un verbo divino. Nel calcio come nella vita, si parla quando mancano i fatti. La storia racconta che il calcio è pieno di dirigenti logorroici con la bacheca vuota. Gli altri vincono, loro parlano. Parlano. Parlano.

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Bene di prima necessità

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – Nessuno avrebbe mai immaginato lo scorso novembre che la Roma potesse ritrovarsi, a quattro giornate dalla fine, a un tiro di schioppo dal quarto posto. Mentre i pochi che non conoscono Antonio Conte non avrebbero scommesso un centesimo sul Napoli oramai strafavorito per lo scudetto dopo il decimo posto della passata stagione. Il calcio muta, si trasforma, in meglio o in peggio a seconda dei gusti, ma una cosa non cambia mai. Gli allenatori fanno la differenza per chi vuole ottenere risultati.

Soltanto Claudio Ranieri poteva riesumare la Roma e portarla a un passo dal paradiso. Soltanto Conte poteva puntare dritto per dritto allo scudetto nonostante a gennaio gli abbiano persino venduto il calciatore più forte. Il calcio sempre più frequentemente si riempie la bocca della parola progetto, manco fosse un quartiere residenziale da costruire. Ma nel calcio le parole sono la giustificazione di chi non sa badare ai fatti.

La verità è che per ottenere l’unica cosa che conta nel calcio, i risultati, servono gli allenatori giusti, se te li puoi permettere. Non a caso Ancelotti è tornato al Real Madrid. Non a caso chi vuole stravincere ricopre di soldi Guardiola. Non a caso Sensi si affidò a Capello. Non a caso per tornare a vincere la Roma chiamò Mourinho. Non a caso, ora, constatato mille volte che Ranieri smetterà di allenare, ci si sta adoperando per sostituirlo con un top manager. Perché questo serve oggi alla Roma.

Certo, serve anche un amministratore delegato, una struttura dirigenziale adeguata, un comparto scouting sviluppato. Bella forza. Per ribadirlo di continuo non serve avere un quoziente intellettivo particolarmente elevato. Lo capiscono anche i bambini. Ciò che invece a molti ancora non è chiaro, è che ci sono momenti in cui non puoi fare a meno di un top manager. In questo momento la Roma ha bisogno di un Allegri, di un Conte se lascia il Napoli, di un Ancelotti se non firma per il Brasile. Specchietto per le allodole? No. Bene di prima necessità. Priorità assoluta. Necessità. Urgenza e impellenza.

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Stato laico o stato like?

LR24 (AUGUSTO CIARDI) – A ogni morte di Papa (pace all’anima sua), se la data del decesso coincide con quella delle partite, parte la polemica. “Nessuno fermi il calcio! Che orrore! Viviamo in uno stato laico. E io sono pure ateo”. Una serie di invettive che avrebbero senso se i rivendicatori di nazionalità in stato laico si battessero ogni giorno dell’anno per andare a lavorare a Natale e a Santo Stefano, nel giorno dell’Immacolata e a Pasquetta. Invece no.

Ieri i contestatori di professione postavano dal divano, mica dall’ufficio o dal cantiere o dalla fabbrica. Che erano chiusi per festa religiosa. Stato laico? Quando lo decidiamo noi. Gente che passa la vita a cercare gli incastri giusti per attaccare riposi e malattia ai ponti religiosi in modo da farsi dieci giorni a casa scalando soltanto un giorno di ferie. Ieri erano tutti anticristo, perché venivano rinviate Torino-Udinese e Genoa-Lazio. E soprattutto per i like.

Sui social leggi “in fondo è morto solo un anziano quasi novantenne”, scritto da chi, il giorno prima, a Pasqua, sfruttando gli uffici chiusi da quattro giorni, postava foto in vacanza col mojito in mano in riva al mare con la didascalia “lasciatemi qui”. Poi ci sono i professori di geografia, che ci ricordano come il Vaticano sia uno Stato a parte. Grazie per l’informazione, ottoppiù. Ma il Papa sta a Roma, Italia. Vescovo di Roma. Culla del Cristianesimo. Vi dicevano anche questo a scuola, ricordate? Così come la Regina Elisabetta stava in Inghilterra. Quando è morta, i campionati si sono fermati. E ci sarà stato qualche tifoso del Middlesbrough o del Coventry anti monarchico a cui nessuno ha pensato. O no?

Nessuno dei rivendicatori dei diritti del pallone si è mai visto sotto il Ministero della pubblica istruzione per protestare contro la chiusura delle scuole per una settimana Pasqua e per quasi tre settimane fra Natale ed Epifania. Feste religiose, che fanno comodo ai sedicenti atei residenti in stato laico. Ricordate alla vigilia del lockdown? “Fermano il campionato per non farcelo vincere”, “che diritto hanno di chiudere gli stadi?”. Popolo col viso deformato dalla polemica e sfruttato da parte di mass media che parlavano per interessi di bottega. Oppure tutti insieme appassionatamente a caccia di like nello stato laico.

Riposi in pace Santità. Glielo scrive un umile cittadino peccatore che con la religione c’azzecca poco o niente.

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Ora serve un segnale forte

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Ranieri ha fatto più di quanto ci si potesse aspettare. Cinque mesi col piede sull’acceleratore per rendere almeno decorosa una stagione che fino a metà novembre era indecente, grazie a un duemilaventicinque da ritmo scudetto. Nonostante questo lavoro encomiabile, bisogna ringraziare a metà aprile che la Fiorentina si sia inceppata davanti al Parma altrimenti per evitare di essere ottavi a una settimana da Pasqua.

Pensare alla Champions League era un dovere perché la Roma ha viaggiato a mille succhiando punti a chi la precedeva. Che fosse complicatissimo reggere quel ritmo era chiaro, ma valeva la pena provarci. I due pareggi con Juventus e Lazio hanno forse definitivamente azzerato le possibilità. Ora bisogna rimettere la marcia alta per giocare in Europa League anche la prossima stagione.

Ma non basta. Ora serve un segnale dalla proprietà. Un segnale forte. Stabilito che in ambito dirigenziale è sempre più urgente un salto di qualità, ci si deve di nuovo aggrappare all’allenatore. Ora deve tornare a essere il momento del proprietario della Roma, Dan Friedkin. Come nel maggio di quattro anni fa. È necessario riaccendere i fari sulla Roma. Alzare il livello in panchina e riportare la Roma sulle prime pagine dei quotidiani e nei titoli dei notiziari. Se è vero che a Friedkin piace il consenso, che poi sarebbe utile capire per quale motivo dovrebbe essere il contrario, c’è un solo modo per abbassare la lancetta del dissenso: ingaggiare un manager di alto livello.

Nell’ultimo mese abbiamo tutti partecipato al gioco de La Lista. Ispirata da Ranieri, è diventata una serie che va in onda su tutti i mezzi di diffusione, dai social alle radio dai quotidiani alle live ai siti. Mille nomi, fra cui quelli di allenatori di primo piano, di bravi mestieranti e di professionisti che rischierebbero di durare da ferragosto alla riapertura delle scuole. La Roma deve di nuovo correre il rischio di impresa. Invertire la tendenza. Per uscire di nuovo dall’ombra.

Ancelotti, il nome più altisonante, sarebbe una mossa alla Friedkin, ma sembra un’utopia. Allegri sta là, non serve neanche chissà cosa per convincerlo, anzi, per paradosso deve convincersi Friedkin nel fare la mossa. Emery sarebbe di alto livello ma al momento non registrano passi per avvicinarlo. Conte apparterrebbe a questa schiera, ma la sensazione è che come spesso gli capita si farà anche il secondo anno sulla stessa panchina. Uno di questi allenatori sarebbe il carburante che serve per rifare il pieno di ambizioni. C’è poi Gasperini.

Quindi ci sono i bravi o bravissimi allenatori, in grado di fare bene, ma che non sarebbero un simbolo o un segnale di rilancio in grandissimo stile. Pioli, Sarri, Mancini, Italiano, forse pure Montella. La Roma ripartirebbe con un nuovo allenatore, ma a fari bassi. Mai come in questo momento serve un segnale forte. Servono gli abbaglianti alti. Un segnale di luce accecante. Anche in ambito mediatico. Perché dopo un quarto di millennio, è evidente che l’allenatore non possa essere soltanto un addestratore che inculca la tattica. Serve fisique du rôle. Serve magnetismo, autorevolezza, dentro e fuori dal campo. Serve un leader, un frontman. Appurato che la Roma non avrà un Marotta, i fari devono accendersi sull’allenatore. Che deve essere di primissimo livello.

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La Lista

LR24 (AUGUSTO CIARDI) Da un’idea di Claudio Ranieri, la serie che prende spunto dal romanzo primaverile dello stesso autore, Ranieri, che è stato letto da un’intera città, appassionata di spy story. Ranieri esclude tutti i nomi fatti fino a quel momento per la sua sostituzione? Ecco La Lista con tutti i nomi fino a quel momento non menzionati. Ranieri risponde “da mo!” quando al Messaggero gli chiedono se La Lista sia stata consegnata? Ecco che da quel momento emergono mille retroscena su come siamo andate le cose per la stesura definitiva. Ranieri parla de La Lista di Ghisolfi che poi è stata assorbita dalla sua per essere presentata al Presidente? Ecco che spuntano i nomi caldeggiati dal dirigente francese, più freschi e più esotici rispetto a quelli scritti dell’esperto allenatore romano. La serie tv La Lista è già in onda, e viene raccontata da siti, radio, quotidiani e social. Ma non si starà esagerando? In fondo stiamo parlando del più classico dei confronti fra dirigenti e presidente all’atto di cambiare allenatore. Salvo i casi per cui si è andati dritto per dritto su un tecnico sapendo di poterlo convincere, ogni volta che si sceglie un allenatore c’è un confronto e vengono passati nomi e opportunità. Sia a Roma sia altrove, anche in realtà calcisticamente molto più importanti della Roma. Ma qui a Roma piace più che altrove romanzare, e Ranieri, uomo di comunicazione, sa bene come indirizzare i discorsi, non tanto dei tifosi, quanto negli addetti ai lavori, che da un mese parlano solo de La Lista, spesso romanzando, noi tutti, poi di quanto già sceneggiato nel romanzo stesso. La Lista, ultimo atto: a breve su tutte le piattaforme.

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